lunedì 19 febbraio 2024

ARTICOLO ESTRATTO DA FARE CULTURA, POLITICAMENTE CORRETTO, NAVUSS, ANANKE NEWS, GIULIANOVA NEWSZARABAZÀ, INFORMAZIONE.IT, RADIO G E RADIO AZZURRA

  

Si intitola “La Fama e la Ricchezza” ed è un romanzo satirico e umoristico il nuovo libro del dott. Eugenio Flajani Galli, già autore di altri romanzi dello stesso genere. Si ride molto, ma c’è anche spazio per la parodia e il grottesco, e quindi per la riflessione psicologica e psico-sociale. “In una società come quella odierna, largamente priva di valori”, spiega l’autore, “l’appagamento derivante dal raggiungimento di uno stato di fama e/o di ricchezza è considerato il punto di arrivo per milioni e milioni di persone. Soprattutto giovani, ma anche più adulti”. Lo psicologo e scrittore giuliese continua così: “L’ossessione per diventare ricchi e famosi come le celebrità che si possono vedere in TV o sui social può anche risultare patologica e sfociare in esiti grotteschi come quelli a cui andranno incontro i protagonisti del mio ultimo lavoro letterario. I due, che potrebbero benissimo essere dei personaggi usciti da Fargo o da una commedia di Eduardo, sono un uomo e una donna accomunati dall’insoddisfazione per la vita a cui sono destinati, e pertanto cercheranno di ottenere fama e ricchezza a tutti i costi e con ogni mezzo...con risultati però talmente disastrosi da far morire dal ridere!”. Insomma, si tratta di un romanzo le cui pagine sono costantemente segnate da un umorismo beffardo, nell’ultima parte anche nero, avente però il fine ultimo di far riflettere sulla società attuale e denunciarne gli eccessi. Encomiabile, infine, il lavoro a 360 gradi portato avanti dall’autore il quale ha deciso anche di curare la parte grafica dell’opera. “In una società in cui già da tempo la lettura sta diventando attività per pochi, oggi l’I.A. sta monopolizzando anche l’ambito della scrittura, sostituendosi all’uomo, ad esempio con ChatGPT. Scrivere senza tale tipo di ausilio a mio avviso è oggi quasi un’impresa eroica. Non bisogna lasciare che dei software occupino lo spazio fino a ieri detenuto dalla mente umana. La tecnologia può al limite servire come ausilio al lavoro dell’uomo, ma questi si deve pur sempre opporre alla possibilità che la macchina lo sostituisca. Se invece la macchina (il software) viene utilizzata come strumento dall’uomo (la mente) e si limita a supportarlo, allora può rivelarsi utile senza creare potenziali pericoli per la società. Ad esempio, la copertina del libro è stata realizzata dal sottoscritto mediante il supporto della I.A., ma senza lasciarle mano libera. Ho impiegato un po’ di più (circa 3 o 4 ore) per portarla a termine, ma così sono più soddisfatto. La protagonista, raffigurata in copertina, è stata creata con FaceApp a partire da una mia foto a cui ovviamente è stato cambiato il genere, e anche lo sfondo raffigurante un’isola come Ibiza – è stato generato artificialmente. Ho comunque apportato delle modifiche a tali lavori dell’I.A. poichè volevo personalizzare il tutto, rendendolo, a suo modo, un piccolo capolavoro di digital art. Sì, lo ammetto, sono un perfezionista!”.

Il romanzo “La Fama e la Ricchezza” (ISBN 9791223005194) è già disponibile presso Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Libraccio, IBS e tanti altri store. Di seguito la sinossi:

 

"La sconcertante storia di una influencer tradita dal demonio e coinvolta in uno scandalo mediatico peggiore di quello del pandoro della Ferragni".

 

Chanel Cazzaniga (qui ritratta sull’isola di Ibiza) era una donna con un unico e chiaro obiettivo nella vita: diventare ricca e famosa. E per diventarlo strinse perfino un patto col diavolo. Una volta divenuta una nota influencer, si trovò però al centro di un tremendo scandalo mediatico per aver inavvertitamente offeso la comunità LGBTQIA+. Per salvarsi da ciò che le aveva causato il diavolo, le rimaneva un’unica possibilità: che S. Ciro da Decentraland le concedesse un miracolo. Ma un santo napoletano avrebbe mai accettato di concedere un miracolo a una snob milanese?

 

In più, questa è anche la storia di Gennaro Esposito, un pover’uomo a cui il governo aveva tolto il reddito di cittadinanza. Disperato, si dovette affidare a un fantomatico guru finanziario: Elon Max, l’investitore Massimo, che gli consigliò di comprare criptovalute e rivenderle a chi fosse stato più scemo di lui. Ma il povero Gennaro avrebbe mai trovato qualcuno più scemo di lui da fare fesso?

 

Due esilaranti storie d’attualità che ironizzano su un’umanità talmente realistica quanto grottesca, sottolineando le innumerevoli peripezie che coinvolgono i tanti semplici individui sedotti dal mito odierno di DIVENTARE RICCHI E FAMOSI!!!!!!

 

NB: ADATTO A UN PUBBLICO ADULTO.

 

Dello stesso autore: “Storie Pazzesche e qualcuna (quasi) Normale” e “Il Reddito di Cittadinanza Demoniaco”.

sabato 11 novembre 2023

Il Festival della Coppia fa tappa a Teramo

ARTICOLO ESTRATTO DA IL CENTRO, CITY RUMORSFARE CULTURA, INFORMAZIONE.ITNAVUSS, GIULIANOVA NEWS, ANANKE NEWS, CAVALIERE NEWS, GIORNALE DI MONTESILVANO, EKUO, LA NOTIZIA, WALL NEWS, ZARABAZÀ E RADIO AZZURRA.

Il giorno 11 Novembre 2023 sarà una giornata all'insegna della psicologia, e più nello specifico dedicata all'approfondimento del delicato tema dell’infedeltà, che sarà affrontato durante il FESTIVAL DELLA COPPIA, che vedrà il suo gran finale a Teramo con il seminario "Dopo l’infedeltà: riscoperta dei bisogni, desideri e limiti personali". Questo incontro si concentrerà sul periodo successivo all’infedeltà: un momento per riflettere sulla propria identità e sulle proprie esigenze, per cercare di ricostruire un equilibrio nella relazione o per la ripartenza di una nuova vita. A fare da relatori per questo festival di caratura nazionale saranno gli psicologi Eugenio Flajani Galli, Walter La Gatta e Cinzia Artioli, tra i massimi esperti di psicologia della coppia. L'evento si svolgerà presso l'hotel Sporting a partire dalle 21.

lunedì 20 febbraio 2023

Da Google a ChatGPT: l’I.A. Sostituirà quella Umana?

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA  ANANKE NEWS, FARE CULTURA E ZARABAZÀ.

Dai tempi della rivoluzione industriale si specula sull’ipotesi che la macchina possa eguagliare le capacità umane, se non superarle. Un dibattito, oggi, ancor più accentuato da tutte quelle innovazioni tecnologiche nate nel nuovo millennio e che hanno fornito all’uomo e alla società una tecnologia sempre più avanzata e vicina − nelle forme e nelle finalità − alla natura della mente umana. O almeno questo è quanto vogliono farci credere.
Gli innumerevoli device informatici sempre più a misura d’uomo, così come i software sempre più a immagine e somiglianza dell’uomo − primo tra tutti il recentissimo ChatGPT − sono concepiti per essere talmente umanizzati e fruibili da parte di qualsiasi utente medio di internet al punto da rispondere a una precisa e impellente finalità di marketing: quella di presentare la tecnologia come tanto avanzata dall’avere un’indole umana, e tanto umana al punto da apparire così simile al nostro modo di essere e di pensare (per appagare la necessità di percepirla familiare e dunque sicura) e deputata a svolgere le nostre stesse attività (per appagare la necessità di percepirla estremamente utile, dunque irrinunciabile). Insomma, tutto quel che serve per poter indurre i consumatori a fare un uso sempre più largo della tecnologia, sempre più avanzato ed esagerato da causare dei mali esclusivi del nuovo millennio, come la diffusione dei virus informatici, degli IAD (internet addiction disorders), della pedopornografia e del cyberbullismo, della vendita di articoli illegali e pericolosi....Se di molti di questi pericoli ho già trattato sia online sia nei convegni da me tenuti, ora voglio mettervi a conoscenza di un rischio a cui si dà poca o nulla importanza: quello di delegare ogni nostro compito a una macchina (principalmente di tipo informatico, cioè un PC, uno smartphone o un tablet). Come visto sopra, oggi le multinazionali dell’informatica − al fine di incrementare i guadagni e mantenersi concorrenziali − immettono sul mercato prodotti che presentano via via più funzionalità e in grado di fare sempre più cose...a scapito della mente umana! Facendo un esempio semplicissimo come i calcoli aritmetici, se si prende la brutta abitudine di effettuare qualsiasi calcolo − anche il più banale − tramite la calcolatrice, mano a mano sarà sempre più difficoltoso fare dei calcoli a mente; un altro esempio è costituito dai contatti telefonici: se si fa troppo affidamento sulla rubrica del proprio telefono − rinunziando a tenere a mente anche i numeri più importanti − si finirà per scordarli e, qualora il cellulare dovesse non funzionare (ad esempio perchè rotto, smarrito, rubato o − evenienza comunissima oggigiorno − scarico), si finirà con il non essere più in grado di chiamare alcun numero, nemmeno in caso di emergenza. Il fenomeno esemplificato poc’anzi è spiegabile a livello di plasticità cerebrale: le connessioni sinaptiche che non vengono sollecitate per molto tempo finiranno per sciogliersi e dunque sarà molto difficoltoso − se non impossibile − (ri)fare certe cose che non si fanno da molto tempo, e che pertanto andrebbero obbligatoriamente riapprese. Ma all’evenienza che la tecnologia ci “lasci nei guai” non si pensa quasi mai: non è infatti interesse delle multinazionali dell’informatica, nè delle imponenti campagne pubblicitarie da queste poste in atto, descrivere (anche) i limiti dei loro prodotti. Tutto ciò porta inevitabilmente a un effetto paradosso: spesso, quanto più la tecnologia è avanzata, tanto più è invalidante. Facciamo l’esempio degli antivirus, i cui produttori sono alle prese con un mercato saturo e ipercompetitivo: la gran parte degli stessi è descritta con toni enfatici, epici e altisonanti, come “la miglior suite antivirus di sempre”, con cui poter “navigare sul web nella più totale tranquillità”. Il messaggio è chiaro: fate quello che vi pare su internet − anche le cose più pericolose e senza cervello − perchè tanto ci pensa il super antivirus X Y a tutelarvi da ogni sorta di virus, trojan, backdoor, spyware, adware e chi più ne ha più ne metta. In tal modo si invita indirettamente l’utente a delegare la propria sicurezza informatica a un software (cioè alla “macchina”), andando paradossalmente ad aumentare il rischio potenziale di imbattersi in minacce informatiche: se infatti un utente fosse consapevole che qualunque antivirus, persino il migliore, non essendo perfetto potrebbe anche non rilevare alcuni malware, arriverebbe all’inevitabile (e corretta) conclusione che il primo antivirus è la propria mente. Dunque, pensare di non aprire allegati da mail sospette, evitare di visitare siti potenzialmente pericolosi, tenere costantemente aggiornato il proprio device.... Ora non sto asserendo che l’antivirus non serva, ma prima di tutto viene la mente, quella umana, per il semplice fatto che le macchine non ne sono in possesso e non ne saranno mai.
 
Di certo al giorno d’oggi e, sicuramente, anche nel futuro la robotica e l’intelligenza artificiale rappresentano e rappresenteranno un (mega)trend imprescindibile per l’economia, la finanza e la società in quanto (fin) troppo presenti nella nostra vita da poter essere relegabili in un angolo. Questa previsione non è solamente teorica, essendo altresì confermata dalle stime rese pubbliche dall’International Data Corporation, secondo cui il mercato globale dell’intelligenza artificiale passerà dai 118 miliardi di dollari dell’anno scorso ai 300 entro il 2026. Cifre veramente impressionanti che non sono di certo sfuggite ai colossi del risparmio gestito: non è un caso che SGR (società di gestione del risparmio, ovvero grandi aziende che si occupano di investimenti del patrimonio mobiliare) quali Allianz, Credit Suisse, DWS, Invesco, Fidelity, iShares/Blackrock e Pictet abbiano creato fondi comuni d’investimento o ETF specificamente incentrati sui robot − così come sull’intelligenza artificiale − che chiaramente rappresentano un interessante ambito d’investimento sia per degli investitori istituzionali sia per quelli retail. Ma ciononostante è assurdo arrivare ad asserire che una macchina possa in futuro raggiungere un tale stadio di evoluzione al punto da permetterle di essere in grado di eguagliare o addirittura superare le performance umane, e ciò è confermato dal fatto che l’uomo − non essendo Dio − non è mai riuscito a creare una copia di se stesso sotto forma di macchina, nemmeno con l’ausilio delle notevoli innovazioni della scienza e della tecnica che sono disponibili al giorno d’oggi. Chi sostiene il contrario, e cioè principalmente le Big Tech (le grandi multinazionali della tecnologia come Google, Meta, Twitter, Microsoft, Apple...) è pienamente consapevole di mentire, ma lo fa per meri fini di marketing, con l’obiettivo di esaltare ed osannare le caratteristiche e funzionalità dell’ultimo prodotto posto sul mercato. E molto spesso ciò avviene con la complicità della stampa, che fa da cassa di risonanza alle sirene delle Big Tech, scordando però che anche quello che potrebbe sembrare il non plus ultra dell’intelligenza artificiale, dell’informatica e di internet, non è altro che una brutta copia della mente umana. Se prendessimo come esempio ChatGPT − spesso descritto da giornalisti poco informati come se fosse un vero e proprio essere umano pensante e comunicante − potremmo notare che la sua modalità di comunicazione è assimilabile più a quella di un pappagallo che a quella di un essere umano: infatti tale chatbot, allorchè interpellato da un utente riguardo a un dato topic, non fa altro che cercare su internet l’argomento, copiarlo (magari anche in palese violazione del relativo diritto d’autore), e poi riproporlo all’utente sotto forma di discorso avente più o meno un senso logico. Ovviamente quanto più l’argomento è difficile, tanto più per ChatGPT sarà arduo riuscire a stilare qualche cosa di utile e sensato. Facendo un paragone con il mondo dell’istruzione, ChatGPT sarebbe come lo studente impreparato il quale, durante un compito in classe, non sapendo nulla di un certo argomento copia ciò che ha scritto il compagno secchione. Può, sì, copiarlo bene (ma anche male), tuttavia sempre un copiato rimane, e dell’argomento in sè, in realtà, non sa assolutamente nulla. Perchè ciò che più manca all’intelligenza artificiale è proprio il processo creativo alla base dei concetti, delle idee e delle riflessioni. Semplicemente l’intelligenza artificiale ignora cosa siano la filosofia e la psicologia. Magari potrebbe enunciare tutte le teorie filosofiche e psicologiche di tutti i filosofi e gli psicologi che sono esistiti (tanto basterebbe copiarle da qualche sito internet come Wikipedia), ma non ci capirebbe nulla e non saprebbe a sua volta trarre insegnamento dalle stesse, nè giudicarle, nè contraddirle, nè rielaborarle. In compenso però ovviamente potrebbe, tanto per fare un esempio, citare tutte le critiche alle teorie di Freud, così come tutti gli autori la cui opera ha origine da quella di Freud, tutti i commenti a tale opera, eccetera, eccetera. Tutto questo rigorosamente a patto che tali informazioni siano già presenti su internet! Se infatti si chiedesse a ChatGPT di muovere delle critiche originali all’opera di Freud − cosa tra l’altro piuttosto semplice in quanto le teorie di Freud sono piene zeppe di errori, che sono venuti alla luce man mano che la psicologia intraprendeva il suo cammino verso lo status di scienza vera e propria − non saprebbe cosa rispondere, se non utilizzando qualche argomentazione nata dalla penna di autori che già in precedenza hanno stigmatizzato Freud e la psicoanalisi. Infine, c’è una precisazione non di poco conto riguardo ChatGPT, perchè oltre a ignorare materie quali la filosofia e la psicologia (ma tanto quanto pretendiamo che ne possa capire un mero calcolatore giunto a uno stadio successivo dell’evoluzione?) ignora anche il buon senso: quanto scommettiamo che questo articolo, dopo essere andato in rete, potrà essere divulgato da ChatGPT qualora gli si chiedesse di redigere un testo sulle critiche a ChatGPT? In pratica si darebbe la cosiddetta “zappa sui piedi” per il semplice fatto di non essere in possesso di quell’acume di cui noi poveri e semplici mortali siamo gli esclusivi depositari.
 
Ma in una realtà come quella odierna, ove la patinata e glitterata spettacolarità della società futuristica − indissolubilmente legata alla tecnologia e al progresso − ha un ruolo fondamentale nel definire e nel plasmare ambiti quali la società, l’economia, la finanza, la socialità, la produttività, l’istruzione...chi sono i cittadini più soggiogabili da Sua Maestà l’Informatica? Chi è nato con questo tipo di tecnologia, da cui ora è assuefatto: la generazione Z. Non è un caso se al giorno d’oggi ci sono fin troppi giovani i quali hanno instaurato un rapporto malsano con la tecnologia: non uno di utilità, ma di dipendenza, di schiavitù. E, come al solito, la scuola è in gran parte estranea a questo malessere in cui oggi versano i giovani, notandone le conseguenze più che altro sul solo piano didattico. Ma se un alunno non riesce, ad esempio, a scrivere correttamente un tema (poichè il linguaggio a cui è abituato − cioè quello delle chat − è molto diverso da quello di un elaborato scolastico), l’insegnante non dovrebbe limitarsi a dare un cattivo voto, ma dovrebbe tenere delle lezioni sul corretto e sano uso della tecnologia, mettendo in risalto non solo le opportunità che la stessa offre (di cui i giovani sono tipicamente consapevoli), ma anche e soprattutto i limiti e i risvolti negativi su cui porre attenzione, dato che ne sono pur sempre parte integrante. E sono anche in continuo aumento. Basta pensare che “Collection #1”, la frode informatica di dati personali − principalmente indirizzi email e password − più grande della storia di internet ha interessato circa 22 milioni di internauti in tutto il mondo, a cui ha fatto subito seguito l’appello di numerose ditte informatiche di utilizzare i loro programmi per creare un archivio sicuro in cui custodire le password personali e/o permettere di crearne altre più sicure con l’ausilio del software stesso. Una domanda sorge però spontanea: se gli hacker sono riusciti a carpire password persino da giganti del web come Facebook o LinkedIn, non saranno anche in grado di fare lo stesso con questi “archivi protetti”? Forse è meglio far affidamento sulla nostra memoria: è molto meno pubblicizzata e fuori moda, ma in compenso tanto più sicura ed affidabile. 


lunedì 24 ottobre 2022

I MECCANISMI PSICOLOGICI ALLA BASE DELLA FINANZA

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA WALL STREET ITALIAANANKE NEWS, FARE CULTURA, POLITICAMENTE CORRETTO, ES ADVISORY E INFORMAZIONE.IT.

Mode “finanziarie” come le criptovalute o gli nft e fenomeni di mercato come il “Santa Claus Rally” sono la prova tangibile che una larghissima parte dei driver che determinano il destino dei 900000 miliardi di dollari (miliardo in più, miliardo in meno) che compongono i mercati finanziari mondiali dipenda da meccanismi psicologici e psico-sociali − non di rado di matrice inconscia − insiti nella società moderna e nei suoi abitanti. D’altra parte che cos’è la finanza se non, in definitiva, l’amministrazione di una ricchezza di tipo mobiliare? E come si gestisce tale patrimonio mobiliare se non con la mente, sia essa razionale sia essa irrazionale? Lo scegliere il modo in cui investire una data somma in borsa non è altro che un tipo di scelta, al pari di tante altre importanti scelte, come quella dell’auto o della casa da acquistare o della vacanza da fare. E queste scelte sono sempre determinate da un mix di concause coscienti e inconsce. Dato che sia la finanza sia la psicologia sono delle scienze, non è difficile poterle confrontare e metterle in relazione tra loro, al fine di comprendere l’interazione tra le due: basta prendere in considerazione dei dati oggettivi − che ci può offrire la finanza − e inferirne le possibili cause − che ci può suggerire la psicologia − di modo da arrivare a delle conclusioni tanto importanti quanto interessanti. Avete presente la prima crypto coniata a immagine e somiglianza di un cane? Si chiama dogecoin, ed è nata per scherzo ad opera di Billy Marcus e Jackson Palmer, probabilmente ideata e chiamata proprio così per mettere le mani avanti laddove la stessa non avesse potuto riscuotere successo e quindi per esorcizzare l’ipotesi che nemmeno un cane scegliesse di metterla in portafoglio. Però, a dispetto di ogni logica e del buon senso, di cani ce ne sono stati tanti: parliamo di quanti hanno acquistato tale altcoin nel periodo in cui la stessa era ai massimi (e quindi andava molto di moda, tanti ne parlavano e “rendeva fighi” possederla) per poi vederla precipitare del 90%, a causa del crollo avvenuto a maggio in seguito a un controverso tweet di Elon Musk, forse la persona che più al mondo è in grado di manovrare i rendimenti delle criptovalute a suon di tweet, esercitando un’elevata influenza sociale sugli investitori per mezzo della sua figura e del suo carisma. Se quindi nell’ambito delle criptovalute è palese che ci sono dei cani, a ben vedere ci sono anche delle volpi − come i creatori del dogecoin o Elon Musk − e dei polli, quali tutti gli incauti investitori i quali hanno tentato di arricchirsi per mezzo di una moneta, virtuale (!) e inneggiante a un cane (!!), che dopo un breve periodo di frenetico rialzo ha subìto un devastante tracollo. Lo stesso Jackson Palmer ha toccato questo argomento e ha mosso delle aspre critiche verso tutte quelle persone le quali, mosse dall’avidità e dal sogno di ricchezza ma senza competenza alcuna in materia, mirano a diventare ricche mediante l’investimento in criptovalute. Egli stesso ha commentato: “Onestamente pensavo che il settore delle crypto sarebbe imploso un po’ più rapidamente e che le persone avrebbero imparato la lezione ma [...] vedo ancora un sacco di soldi incanalati dai promotori di criptovalute. Stanno aspettando l’arrivo di una nuova serie di sciocchi”. E quale sarebbe questa nuova serie di sciocchi se non gente attratta da un rapido e facile guadagno, a fronte dell’investimento su quella tal crypto che va di moda in quel tal momento? A maggior ragione, è nella volatilità tipica delle criptovalute che si può leggere un ottimo esempio di bolla finanziaria, altro fenomeno della finanza che dipende da palesi basi psicologiche. Più nello specifico, gli analisti finanziari sono concordi sul fatto che le bolle finanziarie nascono da atti speculativi sui mercati, in particolar modo quando un po’ tutti gli investitori sono indirizzati a seguire il trend, la moda del momento, dando però vita a un processo speculativo. Benchè non tutte le mode d'investimento appaiano da subito come delle speculazioni, come nel caso del dogecoin, il fenomeno che si attiva nella mente degli investitori è il seguente: viene osservato un trend di mercato che appare inarrestabile e si tenta di guadagnare seguendo questo (effimero) rialzo. Secondo il private banker Fabrizio Azzaro, in un’intervista al magazine We Wealth, la causa scatenante delle bolle finanziarie è proprio questo incremento della richiesta del bene nel momento in cui si diffonde l'opinione che rappresenterà una buona occasione per trarre profitto e quindi la paura di perdere il treno della vita (fenomeno noto come FOMO, cioè Fear Of Missing Out) che consentirà di arricchirsi facilmente e velocemente. Quando però si torna con i piedi per terra e ci si capacita di aver sbagliato investimento, si va incontro alla frustrazione e ai sensi di colpa e si cerca di porvi rimedio in un qualche modo. Se prendiamo l’esempio del dogecoin, Elon Musk è stato portato in tribunale da Keith Johnson, un investitore il quale ha intentato una class action contro il patron di Tesla, reo di aver definito come investimento lecito quella che al contrario, secondo la tesi di Johnson, è una vera e propria truffa: nel fascicolo depositato in tribunale si legge infatti che “Dogecoin non è una valuta, un'azione o un titolo. Non è supportato da oro o altri metalli preziosi. Non puoi mangiarlo, coltivarlo o indossarlo,  non paga né interessi né dividendi. Non ha un’utilità unica rispetto ad altre criptovalute [...], non è protetto da un governo o da un ente privato. È semplicemente una frode”. Ma casi del genere non sono esclusivamente legati ai nostri giorni; certo, nella società odierna iperconnessa le speculazioni che danno vita alle bolle finanziarie e ai conseguenti crolli di borsa tendono ad essere amplificate dalla rete e possono pertanto diffondersi prima e in maggior numero, ma se si guarda al passato non è da stupirsi che siano sempre esistite. Si narra che alla vigilia del crollo di Wall Street del 1929 il banchiere JP Morgan, all’atto di farsi lucidare le scarpe, si sentì chiedere conferma dal lustrascarpe se quello fosse il momento buono per investire in azioni. Morgan, sorpreso dal fatto che perfino un lustrascarpe pensasse che in quel periodo si dovesse entrare sui mercati azionari, dal momento che la borsa stava vivendo un periodo particolarmente felice, appena mise piede dentro Wall Street decise di vendere tutte le sue azioni, poichè nella domanda postagli dal lucidascarpe trovava la conferma che nella società dell’epoca c’era aria di speculazione, e dunque in quel dato arco temporale si sarebbe rivelata una scelta rischiosa lasciare della ricchezza investita sui mercati. Di fatto, qualche tempo dopo la borsa crollò.

Un altro esempio lampante di come il mondo della finanza sia così pesantemente influenzato dalla psicologia si può riscontrare negli storici di rendimento di un tipo di asset finanziario particolarmente remunerativo, cioè quello dell’equity. I mercati azionari, secondo un’analisi longitudinale del sito web Visual Capitalist, tendono effettivamente ad andare meglio in certi momenti dell’anno e peggio in altri, se si considerano gli indici FTSE 100 (relativo alle azioni inglesi), MSCI World (relativo alle azioni globali), S&P 500 (relativo alle azioni statunitensi) ed Eurostoxx 50 (relativo alle azioni europee), ovvero 4 dei principali indici azionari al mondo. E sapete qual è il periodo dell’anno in cui la spinta verso l’alto degli indici azionari è stata più marcata? Quello sotto Natale, che ha quindi dato vita, in ambito finanziario, al soprannome di “Santa Claus Rally”, che rende proprio bene l’idea della corsa al rialzo dei mercati finanziari nel periodo natalizio. Insomma, la magia del Natale fa sì che tutti diventino più buoni, anche i mercati finanziari! La spiegazione di questo fenomeno psicofinanziario? Se vogliamo credere a Babbo Natale potremmo ritenere che qualche bambino(ne) − nella letterina a questi indirizzata − ha chiesto di portare, oltre alle scontate pace e serenità, anche qualche più pratico profitto in borsa. Ma se invece non abbiamo voglia di credere a Babbo Natale, potremmo trovare la spiegazione di questo fenomeno nell’euforico effetto psicologico che le festività natalizie hanno su di noi (c.d. “magia del Natale”), e che quindi ci spingono − tra le varie cose − a essere più inclini agli acquisti. Questa spinta psicosociale a fare la corsa agli acquisti natalizi, pena il senso di colpa di non afferrare il “senso del Natale” e diventare presto dei cattivissimi Grinch, si ripercuote su ogni possibile tipo di acquisto una persona ritenga dovuto laddove capace di appagare l’impulso al possesso di qualcosa, così come ad apportare delle soddisfazioni al nostro ego. Se allora una persona è appassionata di tecnologia comprerà un nuovo smartphone o un nuovo PC, se è una che dà importanza alla moda un nuovo capo di abbigliamento, e se si tratta di una interessata agli investimenti...bè la conclusione è scontata: acquisterà dei prodotti finanziari, quali dei fondi, degli etf o delle singole azioni (stock). D’altra parte il possedere degli investimenti − al di là della finalità meramente economica di vedere aumentato il proprio patrimonio − è anch’esso un modo per appagare il proprio ego: se ad esempio posseggo delle quote della Apple o della Microsoft o della Tesla o della Berkshire Hathaway, mi posso sentire, rispettivamente, un po’ uno Steve Jobs o un po’ un Bill Gates o un po’ un Elon Musk o un po’ un Warren Buffett o un po’ tutti quanti loro se posseggo delle quote di tutte queste aziende; mi sento pertanto anch’io, almeno di riflesso, una persona ricca, capace, di successo, potente e famosa e, in altre parole, brillo di luce riflessa. Allo stesso modo, il possedere degli investimenti dà la speranza di poter diventare ricchi, molto ricchi, nel caso in cui gli stessi vadano tanto bene prima o poi. Si tratta, facendo un semplice confronto, della stessa finalità con cui ci si reca a giocare lo stipendio al Lotto o alle slot machines (da qui il detto popolare, magari improprio ma che rende bene l’idea di fondo, di “giocare in borsa”): si impiega un capitale iniziale sperando di potercisi arricchire, ma ovviamente se si tratta di investimenti questo iter verso la ricchezza si fa molto meno immediato, più complesso e sfaccettato, ma non per questo è meno orientato al raggiungimento di una speranza e al coronamento di un sogno. E questa speranza e questo sogno valgono molto per la nostra mente, perchè nella vita è sempre una bella esperienza sognare o sperare in qualcosa di bello, di meraviglioso, per noi stessi: ci aiuta a tirare avanti nei momenti di sconforto e in quelli di maggiore stress o monotonia.

 

In conclusione di questo articolo, ove psicologia e finanza, pensieri e mercati, menti e stock si intrecciano così tanto tra loro, è naturale che al lettore sorga spontanea una domanda: potrebbe esistere la finanza senza psicologia?



giovedì 7 ottobre 2021

PSICOLOGIA DELLE CRIPTOVALUTE: IL VALORE DI BITCOIN & CO É SOLO PSICOLOGICO?

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS, FARE CULTURA E POLITICAMENTE CORRETTO.

Se Elettra Lamborghini twerka in un video come quello di Pem Pem, divenuto poi virale, lancia la moda di un ballo. Se un eccentrico miliardario quale Elon Musk si fa testimonial di una criptovaluta come il bitcoin, lancia la moda di un investimento. Un investimento che sicuramente avrebbe largamente ricompensato chi 10 anni fa ha acquistato anche solo una manciata di bitcoin. Ma le criptovalute non sono dei BOT a 10 anni, ed è estremamente difficile ipotizzare che ci sia tanta gente pronta a detenere un investimento estremamente volatile per così tanto tempo. Le criptovalute, a differenza di investimenti più tradizionali, oltre a essere estremamente volatili, sono circondate quasi da un’aura mistica, per cui non è raro trovare persone le quali sono profondamente convinte che i loro bitcoin ogni giorno possano aumentare di valore, ed ecco spiegato il perchè sono pronte a tenerli praticamente all’infinito. Ecco, ma sono convinte, cioè trattasi praticamente di una mera opinione personale, poichè a livello scientifico è praticamente impossibile stimare il valore delle criptovalute anche solo tra pochi mesi, proprio per la loro elevatissima volatilità. Possiamo dunque constatare che il valore di una criptovaluta sia formale, psicologico, legato insomma a quanto un certo gruppo di persone − ad esempio i “bitcoiners” − gli diano importanza. Senza tale valore psicologico, il bitcoin non varrebbe assolutamente nulla. Non si tratta di una materia prima, con un dato valore intrinseco, potenziale, dato dal suo successivo impiego, nè di un’azienda con utili e relativo patrimonio aziendale…insomma si tratta soltanto di un valore simbolico, che sussiste fino a quando ci sarà un sufficiente numero di persone − legate dalla moda di investire in criptovalute − le quali intendono darglielo. Si potrebbe ribattere che anche le valute fiat, cioè quelle tradizionali, abbiano solamente un valore simbolico, poichè, ad esempio, una banconota da 50 € di per sè è solamente un pezzo di carta, non ha dunque un valore pari a quello che ci si potrebbe acquistare spendendola, ma questo suo valore e questa sua spendibilità sono comunque sanciti dalla legge. Anche l’ex presidente della BCE Mario Draghi ha commentato che dietro a una valuta fiat c’è uno stato, c’è una banca centrale, mentre dietro alle criptovalute non c’è nulla; l’attuale premier italiano ha inoltre affermato che le criptovalute sono un asset (cioè un investimento) altamente rischioso e pertanto gli investitori che perdono anche grandi ricchezze poichè le hanno investite in criptovalute non andrebbero indennizzati. Nonostante ci si possano aspettare, tendenzialmente, parole più umane, comprensive e caritatevoli da un uomo rimasto orfano in giovane età e allevato dai gesuiti (il paragone con un’altra personalità cresciuta dai gesuiti, San Gabriele dell’Addolorata, è a dir poco impietoso), fatto sta che le criptovalute sono viste molto male dalle banche centrali e, più in generale, dai capi di stato, proprio perchè potrebbero far perdere il valore alle valute fiat. Certo, ci sono pure delle eccezioni, che confermano però la regola, come il caso isolato del piccolissimo stato di El Salvador, che per attirare investitori internazionali in una realtà ove la stragrande maggioranza degli investitori tradizionali non metterebbe mai piede (considerato anche che questa piccola nazione si basa principalmente su una economia di sussistenza e il Pil pro capite è estremamente basso) ha pensato bene di rendere il bitcoin la moneta ufficiale. Ma cosa dire invece dell’economia più potente al mondo, che ha praticamente superato anche quella degli USA, ovvero la Cina? Anche le autorità cinesi hanno accettato di buon grado i bitcoin? Nemmeno per sogno: a maggio hanno addirittura vietato alle banche le attività legate alle criptovalute, di fatto iniziando una vera e propria guerra economica contro di esse. Le conseguenze? Crollo del valore dei bitcoin. Ma il mese di maggio non è stato nero per i bitcoin solo a causa di tale decisione del governo cinese, poichè anche un semplice tweet può far crollare il valore dei bitcoin. E non è il tweet di qualche capo di stato, nè di organizzazioni criminali quali l’ISIS o Anonymous, ma dello stesso paladino della prim’ora dei bitcoin, Elon Musk, il quale un bel giorno si è svegliato, ha constatato che il processo di produzione dei bitcoin − il cosiddetto mining, un’attività che prevede degli appositi calcoli automatizzati da parte di computer di alta gamma, che necessitano di rimanere accesi e connessi alla rete praticamente notte e giorno − è altamente energivora e pertanto dannosa per l’ambiente, e dunque ha dichiarato con un tweet che la sua ditta automobilistica, la Tesla (che prima permetteva di acquistare auto in bitcoin, facendo dunque salire il valore degli stessi) non avrebbe più accettato tale forma di pagamento e che lui stesso si sarebbe concentrato su un altro tipo di criptovaluta più amica dell’ambiente. Stando così le cose, a meno che Elon Musk non sia stato posseduto da Greta Thumberg, il significato della sua mossa è semplice: amplificare o diminuire il valore del bitcoin a seconda del suo tornaconto personale. Questo è l’esempio lampante di quanta psicologia vi sia dietro ai bitcoin: in fin dei conti sono proprio gli atteggiamenti, le mode e le opinioni del momento − amplificati da esternazioni di personaggi e/o società importanti (e che pertanto sono in grado di esercitare un’elevata influenza sociale sui più) − a determinare il valore delle criptovalute. Ed è palese che siano tutti fattori estremamente imprevedibili e ondivaghi. Ecco perchè sono anche estremamente imprevedibili e ondivaghi i valori delle criptovalute. Ciò può portare con sè un elevato rischio, come ha affermato − oltre a Mario Draghi − anche gran parte delle associazioni dei consumatori. D’altra parte le persone che investono in asset tradizionali, come azioni, obbligazioni, fondi comuni ed etf, hanno quantomeno un minimo di tutela data dal fatto che su tale tipo di investimenti la legge prevede che vi sia la vigilanza della Consob e della Banca d’Italia; ma tra l’altro una persona che vuole effettuare un certo tipo di investimento tradizionale deve prima compilare un questionario detto “Mifid”, che praticamente ha lo scopo di chiarire le conoscenze e le competenze in materia finanziaria di un potenziale investitore, nonchè il suo patrimonio mobiliare ed immobiliare e la sua propensione al rischio. Tutte queste informazioni concorrono a stabilire, almeno sulla carta, quali possono essere gli investimenti migliori per una data persona. Tutte queste garanzie non esistono per quanto riguarda i bitcoin. Dopo il fallimento della banca Tercas, gli ex azionisti hanno potuto effettuare delle class action contro la banca stessa, ma invece se si perdono i bitcoin non si può fare causa a nessuno, poichè, come asserito anche da Mario Draghi, “Non c’è nessuno dietro ai bitcoin”. Ma proprio perchè tante banche spesso mal consigliano gli investitori, facendoli dunque perdere in borsa, esistono proprio delle società specializzate nel recuperare soldi persi in tal modo, laddove venga accertato il dolo da parte dell’istituto bancario. Ovviamente ciò non è possibile con le criptovalute, poichè sono un “non investimento”. Ma se si acquistano “a 10” e si vendono “a 20”, ci si guadagna la differenza (in valuta fiat). Non c’è altro modo per guadagnare con le criptovalute se non questo tipo di speculazione. Ma bisogna anche sperare che il valore della criptovaluta salga e che non ci sia nessuna persona in grado di orientarne il valore che un giorno decida di scrivere un bel tweet che la faccia crollare in borsa. E il caso del tweet di Elon Musk è magistrale, proprio nella sua surrealità e allo stesso modo, però, nel suo modo estremamente reale di influenzarne così pesantemente il valore. É un po’ come se un giorno la regina Elisabetta si svegliasse e scrivesse un bel tweet per far crollare il prezzo del tè: “Ora basta con questa storia del tè: noi inglesi ci siamo stufati di un simile clichè! Da oggi il pomeriggio si beve solo spritz! A breve verrà emanato un editto con cui si vieterà la produzione e la commercializzazione del tè su tutto il territorio del Regno Unito”. Poi l’Irlanda del Nord annuncia un referendum per annettersi con il resto dell’Irlanda, gli indipendentisti scozzesi annunciano che è arrivato il momento di fondare lo “Stato di Scozia” e i castelli del Galles vengono riconvertiti in laboratori clandestini di produzione di tè verde. A questo punto, dato che con i bitcoin si può acquistare, nel deep web, qualsiasi tipo di prodotto illegale, dalla droga alle armi, dai documenti falsi ai video pedopornografici, perchè non acquistare anche del buon tè?

martedì 13 aprile 2021

FOMO - LA SINDROME ANSIOSO-DEPRESSIVA LEGATA AI SOCIAL E LE SUE CAUSE PSICHICHE

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Che l’ascesa dei social network fosse inarrestabile e inevitabile è cosa nota già da un decennio, ma ciò che non si poteva sapere anni addietro è che sarebbe avvenuta una pandemia che avrebbe accelerato ancor più tale ascesa. Infatti, in un’epoca il cui motto è #iorestoacasa, appare evidente come i contatti mediati digitalmente dai social network abbiano preso via via il posto dei contatti offline, in nome del mantenimento del distanziamento sociale imposto dai vari DPCM. Che il distanziamento sociale sia cosa buona e giusta durante una pandemia è risaputo, ma un utilizzo così massiccio di internet e dei social network, considerati praticamente come uno dei pochissimi mezzi a disposizione al fine di preservare dei contatti sociali, seppur virtuali, non poteva che portare con sè anche un conseguente incremento di vere e proprie patologie ad essi collegati: si tratta degli IAD, gli Internet Addiction Disorders (cioè disturbi da abuso di internet), sotto la cui etichetta ricade tutta quella serie di patologie causate da un utilizzo eccessivo e disadattivo della rete, dunque errato sia da un punto di vista quantitativo (poichè eccessivo) sia da uno qualitativo (poichè disadattivo). Uno dei più pericolosi IAD è proprio legato ai social network, e si definisce “FOMO” - Fear Of Missing Out, ovvero la paura di essere “tagliati fuori” dai rapporti sociali. Tale paura di esclusione sociale, amplificata dal fatto che come ben sappiamo i social network sono uno dei pochi mezzi che abbiamo a disposizione per avere dei rapporti sociali nello scenario attuale, può portare a delle vere e proprie sintomatologie di ansia e depressione, poichè se non si è (onni)presenti sui social network, non si ricevono abbastanza like, commenti, messaggi, visualizzazioni, condivisioni e via dicendo, allora ci si deprime in quanto si ritiene di non piacere agli altri. Tale ricerca spasmodica del consenso e della visibilità non può che essere causa d’ansia, che a sua volta amplifica questo iperutilizzo dei social network, arrivando dunque a creare un vero e proprio circolo vizioso. Una problematica, questa, che non è più legata − come in passato − soltanto a una determinata fascia d’età (ovvero quella più giovane), ma a tutte le fasce anagrafiche, se pensiamo che, ad esempio, tantissimi over 70 al giorno d’oggi utilizzano attivamente Facebook. Ma nonostante tale patologia potenzialmente potrebbe colpire qualsiasi utente dei social network, a prescindere dall’età, ancora una volta chi ne paga maggiormente le spese sono proprio i più giovani: infatti i social hanno hanno la peculiarità di poter rendere quantificabile la fama, la popolarità e la conseguente influenza sociale di un dato individuo. D’altra parte chi sono al giorno d’oggi i giovani giudicati, dai loro pari, come i più “fighi”? Coloro i quali hanno sui loro profili social più follower, like, visualizzazioni, commenti e via dicendo. E proprio al fine di raggiungere questo obiettivo fin troppi giovani si impegnano in atti, anche molto pericolosi, che non hanno altro scopo se non quello di aumentare la loro popolarità mediatica. Bravate che possono costare anche molto care, fino a pregiudicare l’incolumità fisica e portare ad esiti nefasti. Come nel caso di Antonella, la bambina siciliana di 10 anni resa famosa quest’anno a causa di una sfida su TikTok. Una sfida che si sarebbe poi rivelata letale. Ma tale indice di popolarità è così tanto considerato anche perchè viene utilizzato pure per fini aziendali, con l’obiettivo di mettere “sotto esame” i vari influencer o aspiranti tali: se appunto hanno tanti follower, like e via dicendo, allora hanno più possibilità di poter collaborare con le varie aziende intenzionate a pubblicizzare i loro prodotti sui social network. E come se non bastasse, è recentemente emerso anche il concetto di engagement, ovvero della capacità di un dato utente di intrattenere gli altri utenti mediante i contenuti da lui postati. Questa capacità di intrattenimento si può anche misurare tramite appositi software, la cui maggior parte risulta a pagamento (ma ne esistono anche alcuni gratuiti, come quello messo a disposizione su questo sito), che praticamente mettono in relazione tra loro il numero di follower di un dato utente con il numero medio di like e commenti che ricevono i suoi post. Dunque al giorno d’oggi, oltre al dare per scontato il fatto che per essere qualcuno sui social network è fondamentale avere il maggior numero possibile di follower, like, visualizzazioni, eccetera, sta emergendo perfino quest’ultima necessità, che prevede che un dato utente non solo debba avere tanti follower, ma anche un numero di like e commenti per ogni post proporzionato al numero di follower. Siamo arrivati al livello che ogni persona avente un account social debba comportarsi come una scimmietta ammaestrata impegnata a esibirsi in uno spettacolo, il cui successo dipende dal numero di persone che attira per visionarne l’esibizione e dalla quantità di applausi che dalle stesse riceve. L’engagement rate è però una misura quantitativa, non qualitativa, e dunque può emergere, ad esempio, che una foto della Cappella Sistina sia inferiore rispetto a quella di un bel sedere femminile in primo piano dal momento che la prima riceve meno like della seconda. Insomma, è chiaro che assolutamente il numero di like non può essere considerato come garanzia di qualità di un determinato contenuto, e a maggior ragione ho voluto approfondire tale argomento mettendo a confronto su Instagram l’engagement rate di deputati e senatori, da un lato, e di semplici ragazze carine, dall’altro, con un numero di follower simile tra loro: ne è emerso che i politici, nonostante presentino quasi sempre profili social molto ben curati (anche perchè amministrati dettagliatamente da social media manager lautamente retribuiti), hanno fotografie e video vertenti prevalentemente su votazioni alla Camera o al Senato, visite istituzionali e incontri con altri politici, sindacati, elettori effettivi o potenziali, eccetera, con un numero di like generalmente ben inferiore a quello delle ragazze che pubblicano foto in stile “copertina di Playboy”. Da notare che si tratta di semplici ragazze qualsiasi, non modelle di professione o influencer famose; se facessimo il confronto “deputati e senatori vs. modelle e influencer” ovviamente i politici ne uscirebbero allo stesso modo sconfitti (ma anche peggio di prima), avendo in media un numero di like e follower enormemente inferiore rispetto a loro. Ma allora come si fa a capire se un dato contenuto social possa essere di qualità o meno? Facendo l’esempio di Instagram, da un punto di vista strettamente tecnico è possibile capire se una data fotografia è “presentabile” o meno semplicemente perchè è il social network stesso che se ne accorge, tramite un algoritmo che automaticamente decreta se certe foto sono di alta o bassa qualità. Per poterlo capire bisogna avere un account aziendale (ma qualsiasi normale account di Instagram può essere convertito gratuitamente in aziendale tramite dei semplici passaggi nella sezione “impostazioni”): infatti Instagram, dando per scontato che un’azienda voglia farsi pubblicità sui social, dà la possibilità a tali account di “promuovere” − ovvero sponsorizzare, mettere in pubblicità − un dato post. Supponiamo che un dato ristorante voglia farsi pubblicità su Instagram sponsorizzando una foto di una specialità culinaria del locale: tale post, dal momento che una volta sponsorizzato godrà di una visibilità maggiore, dovrà dunque essere di qualità, almeno dal punto di vista strettamente grafico, per cui Instagram rende impossibile la promozione di foto aventi una scarsa qualità dell’immagine, e anche se cliccassimo sul relativo tasto promuovi, non sarebbe possibile promuovere alcunchè. Effettivamente in tal caso tale tasto apparirebbe sbiadito e, una volta premuto, comparirebbe una scritta che, appunto, informa che non è possibile promuovere il post in questione in quanto di bassa qualità (solitamente perchè di bassa risoluzione). Quindi, se è possibile promuovere una data fotografia vuol dire che la stessa supera gli standard minimi di qualità imposti dal social network e, in ogni caso, se volessimo ancora migliorarne la qualità grafica si potrebbe pur sempre utilizzare un software come Photoshop o anche il programma di photo-editing stesso di Instagram, disponibile ogniqualvolta vengono caricati contenuti sul social. Una volta caricata una bella fotografia, è necessario anche impostare dei buoni hashtag per renderla rintracciabile da altri utenti a cui può essere d’interesse. A tal proposito è necessario utilizzare gli hashtag più pertinenti per la fotografia in questione, evitando laddove possibile quelli esageratamente di nicchia (ad esempio quelli utilizzati meno di mille volte) o quelli esageratamente popolari (ad esempio quelli utilizzati milioni di volte), al fine di concedere un’adeguata esposizione al post. Se la foto è ben fatta, simpatica, originale, interessante e via dicendo, sicuramente qualcuno metterà il like. E qui non conta la quantità. Ma la qualità. Facciamo l’esempio di aver postato la fotografia di un gatto: se riceve like da profili di utenti ai quali è palese che piacciano i gatti (ad esempio persone con gatti in ogni foto, profili di veri e propri gatti o community di amanti di gatti), vuol dire che il post è di qualità. Di fatto, se ad utenti che vedono decine, se non centinaia, di foto di gatti tutti i giorni piace tale post, vuol dire che è di qualità in quanto giudicato tale proprio da “esperti del settore”. Ovviamente un amante di soli cani o una persona a cui non piacciono proprio gli animali non metterebbe mai un like a una fotografia di un gatto...e non per questo ci si dovrebbe preoccupare. E se poi chi mette il like non sono “semplici esperti in materia”, ma “grandi esperti in materia”, tanto meglio. Ora facciamo l’esempio di una ragazza la quale si diletta a tempo perso con nuove creazioni in cucina e che pertanto posta le sue ricette su Instagram: se si tratta di una ricetta gustosa, interessante e originale, allora potrebbe prendere like da altri cuochi − professionisti o dilettanti che siano − e perfino da qualche chef stellato. E un like assegnato da un grande chef ovviamente varrebbe molto di più di un like dato, ad esempio, da uomo qualsiasi il quale non ha nemmeno guardato bene il piatto proposto, ma si è limitato a mettere il like tanto per ingraziarsi questa ragazza e attirare su di sè la sua attenzione. E potrebbe trattarsi anche della frittura di pesce migliore del mondo, ma ovviamente nessun vegano, nessun animalista metterebbe mai il like a una foto del genere. Dunque i social network, se ben analizzati, ci insegnano che la qualità è di gran lunga più importante della quantità, e che non è possibile piacere a tutti. In fin dei conti perchè si dovrebbe? L’utilizzo improprio dei social spinge una persona a badare più all’apparenza che all’essenza, a dover piacere a tutti a costo, poi, di non piacere a se stessi. Ed ecco qui che spuntano fuori l’ansia e la depressione della FOMO, una patologia caratteristica dei nostri giorni e della condivisione compulsiva di ogni attimo che compone la nostra esistenza. Centinaia di milioni di persone inseguono la chimera del piacere a tutti e perdono di vista se stessi: perchè infatti mi dovrei preoccupare se un dato contenuto non piace agli altri? L’importante è che piaccia a me. E in secondo luogo ad altre persone che condividono i miei stessi interessi. Non importa quante poichè la quantità non è assolutamente garanzia di qualità e anzi, spesso, come abbiamo potuto constatare, è proprio l’opposto. Insomma, queste ansie “da social” si possono esorcizzare se e solo se si prende coscienza dell’inutilità di volersi esporre non come chi si è veramente, ma come si vuole apparire. É proprio da questo errore che scaturisce il meccanismo malsano della compiacenza. Oltretutto, a conferma del fatto che è impossibile piacere a tutti − e dunque da stupidi il cercare di metterlo in atto esponendosi sui social − si è espressa perfino la Corte di Cassazione: infatti la Suprema Corte ha emesso anche una sentenza in cui si afferma che non è reato augurare la morte ad altre persone. I principi che hanno spinto la Suprema Corte ad arrivare a questa conclusione partono proprio dal presupposto, come si può leggere nella relativa sentenza, che nella vita non si può piacere a chiunque e che dunque l’odio e il disprezzo siano fenomeni normalissimi − sebbene ovviamente non piacevoli − che possono anche portare, nella fattispecie, a condotte quali l’augurare a una persona a noi non simpatica la sua celere dipartita. E se ce lo fa notare anche la giurisprudenza, vuol dire che il desiderio di piacere a tutti non è di certo un obbligo di legge. Perchè dovremmo tentare di raggiungerlo, mettendo anche a repentaglio la nostra salute?

 

lunedì 21 dicembre 2020

VITA E MORTE, PAURA E SPERANZA IN VENT'ANNI DI RICERCHE SU GOOGLE

ARTICOLO DI EUGENIO FLAJANI GALLI ESTRATTO DA ANANKE NEWS.

Gli anni passano, e anche internet inizia ad avere la sua età, con tutto ciò che ne consegue. Al giorno d’oggi, la pandemia non ha fatto altro che amplificare e accelerare l’irreversibile processo di affermazione sempre più cospicua delle attività online nelle nostre vite, tant’è che la rete stessa è diventata oramai un mezzo di comunicazione di massa, accessibile praticamente a chiunque, e da ciò consegue che internet rappresenta lo strumento più idoneo per studiare la società e gli individui che la compongono. Ma internet è composto da milioni e milioni di siti, che ovviamente non si possono studiare uno ad uno; al contrario è più logico e produttivo analizzare i siti più utilizzati al mondo e, perchè no, proprio il più utilizzato di tutti, Google. Non a caso è stato anche ribattezzato “Big G”, proprio a causa del suo primato di essere al contempo il sito e il motore di ricerca più famoso e più utilizzato al mondo, ragion per cui sarebbe molto interessante effettuare un’analisi psicologica dei termini maggiormente cercati nel presente millennio, a livello globale, tramite Google. Un’analisi, questa, che ci permette di capire a fondo la società in cui viviamo e che è resa materialmente possibile grazie al tool di Google denominato “Google Trends”. Si tratta di uno strumento molto semplice da utilizzare: basta selezionare un dato anno dal 2001 ad oggi ed ecco che compaiono i termini maggiormente ricercati, suddivisi anche per categorie. In questo modo possiamo notare come Google diventi metaforicamente uno specchio attraverso cui possiamo vedere noi stessi, mentre siamo impegnati a cercare i nostri più disparati pensieri − alcuni consapevoli, altri di meno − scrivendoli su un motore di ricerca. Google ha infatti una funzione informativa, ed è proprio per tale ragione che si utilizza: si cerca di approfondire determinati pensieri ed argomenti, di trovare delle spiegazioni ad essi, di avere delle rassicurazioni e così via. Ma a quali tematiche sono riconducibili i principali pensieri che attanagliano l’uomo del nuovo millennio? A concetti molto elementari, e per tale ragione fondamentali, per ogni individuo: vita e morte, paura e speranza. L’uomo del nuovo millennio, a conti fatti, non è poi tanto dissimile da quello delle caverne. E non lo è nemmeno dagli altri animali. In termini darwiniani si potrebbe persino affermare che l’uomo non si discosta tanto dalle specie più elementari di animali, mosse fondamentalmente dall’istinto di sopravvivenza o conservazione: per tale ragione cercano di combattere la morte tramite l’arma della paura, inseguendo così la speranza di rimanere in vita. Ai tempi delle teorie di Charles Darwin non esistevano nè internet, nè l’uomo del nuovo millennio, eppure quest’ultimo è così maledettamente simile a quello delle ere precedenti. Lo conferma Google. Non è un caso se nel presente anno il termine più cercato su Google è stato COVID. La pandemia è infatti un evento concettualmente e fenomenologicamente altamente correlato alla morte, e dunque alla paura, per cui non è un caso se è stato così largamente cercato. Ma non è nemmeno un caso se negli altri anni − pur non essendosi verificati eventi esiziali ai livelli di una pandemia − tra i termini più ricercati troviamo catastrofi naturali di larga portata come uragani, terremoti ed eruzioni vulcaniche. Eventi, tra l’altro, molto facili da assimilare per la psiche e dunque ben comprensibili anche a fasce di popolazione in età scolare o prescolare. Altri eventi legati a morte e paura sono stati quelli di origine artificiale (benchè anche i disastri naturali potrebbero avere quantomeno una concausa artificiale dal momento che possono benissimo dipendere dai cambiamenti climatici causati dall’azione antropica), quali guerre e attentati terroristici: non è un caso, ad esempio, se nel 2014 e nel 2015 uno dei termini in assoluto più cercati è stato ISIS. In casi come questi il fenomeno che porta con sè la morte − e di conseguenza la paura, ovvero la risposta che mette in atto la nostra mente per poterla combattere − è stato ampiamente cercato e studiato proprio al fine di conoscerlo meglio e dunque evitarlo e/o combatterlo. Ma la nostra mente, di fronte a un fenomeno altamente carico di emotività quale è la morte, molto spesso non funziona in termini statistici e oggettivi, bensì soggettivi ed emotivi. Infatti, molte volte si tende a sovrastimare i casi di morte spettacolare, strana, misteriosa, irrisolta e/o romanzesca rispetto a quelli in cui il decesso avviene in modi normali, scontati e ben spiegabili: a questo punto la mente tende a dare praticamente la stessa importanza sia alle morti del primo tipo, sia a quelle del secondo. Non è un caso se il celebre documentario − in Italia trasmesso su Sky − Mille modi per morire ha avuto così tanto successo: semplicemente ricostruisce le morti più strane, realmente avvenute, al fine di suscitare interesse nei confronti del telespettatore. Ed è stata appunto la paura della morte, a prescindere dal modo in cui la stessa è avvenuta, ad aver fatto cercare su Google illustri nomi dello sport e dello spettacolo...soprattutto quando sono morti! E sono stati cercati ancor più se la loro dipartita è stata, come abbiamo visto prima, di carattere misterioso, irrisolto e romanzesco. Non a caso, Diego Armando Maradona è stato uno degli individui in assoluto più cercati su Google quest’anno, così come lo è stato Michael Jackson nel 2009, Amy Winehouse nel 2011, Avicii nel 2018, Chris Benoit nel 2007. Tutte persone accomunate da morti legate a circostanze misteriose, inclusi suicidi apparentemente inspiegabili (Avicii e il wrestler Chris Benoit), che hanno dato origine anche a teorie complottistiche e a miti e leggende metropolitane (ad esempio la tesi secondo cui Michael Jackson sia ancora vivo). E anche qui si può constatare come, a distanza di millenni, l’uome sempre è lo stesso: un Ulisse il quale, mosso dal suo innato desiderio di conoscenza, si spinge oltre le colonne d’Ercole. 

Ed effettivamente, è da riconoscere che una cosa che proprio non sopporta la nostra mente è l’incertezza. Quando è presente, si cerca in tutti i modi di esorcizzarla. Tramite la conoscenza. Una meta che si desidera raggiungere attraverso quello che è il mezzo più immediato, semplice da utilizzare e alla portata di (quasi) tutti: Google. Il detective dentro ognuno di noi si cimenta così con lo scoprire le cause delle morti di personaggi celebri, al fine di razionalizzare una delle cose che più temiamo: la morte. Un argomento di rilevanza particolare nella vita di ognuno di noi, che quindi vogliamo approfondire e conoscere al meglio. Non è un caso che tutte quelle morti legate a circostanze misteriose o anche tutte quelle perdite − in senso lato − legate a persone scomparse siano le più difficili da elaborare e digerire: sono infatti i lutti a cui non è possibile aggiungere la parola “fine”, quelli ove la conoscenza esibisce i suoi limiti. E laddove la conoscenza si ferma, spesso prosegue la fantasia, come nel caso sopracitato della leggenda metropolitana secondo cui Michael Jackson sia ancora in vita. Da Google Trends possiamo dunque imparare come la morte sia un fenomeno così importante per la nostra mente, tanto che non sono solo le celebrità decedute quelle ad essere più cercate online, ma anche coloro le quali sono vittime di episodi in cui hanno rischiato realmente la vita. Prendendo ad esempio l’anno 2018 − forse quello più importante ed esemplificativo di tutti ai fini dell’analisi psicologica delle keywords cercate su Google − possiamo notare come la seconda donna più cercata al mondo sia stata Demi Lovato, che proprio quell’anno ha rischiato perfino più volte di fare la fine di Amy Winehouse, ovvero di perire a causa di overdose; l’uomo invece più cercato su Big G è stato Avicii, il quale è risultato addirittura più ricercato nell’anno della sua morte che negli anni in cui ha avuto un successo planetario! 

E come se non bastasse, va notato che nel 2018 Avicii non ha tenuto nemmeno un dj set, mentre nel periodo di maggior successo (grosso modo da fine 2011 al 2016) faceva così tante date da arrivare a soffrire di patologie psico-fisiche o comunque dipese da tale situazione di eterno stress. Eppure, il mondo intero ha dato più importanza alla sua morte che a qualsiasi altra cosa abbia mai fatto.

La mente umana, però, non può pensare in continuazione a concetti emotivamente negativi come la paura e la morte, e pertanto cerca anche delle valvole di sfogo che possano in un certo qual modo donare serenità e speranza. Anche tal cosa è constatabile consultando Google Trends, poichè le ricerche più effettuato su Google contemplano molte volte temi quali lo sport, la musica, il cinema e il gossip. A tal proposito, prendendo sempre ad esempio il 2018, possiamo constatare come la donna più cercata al mondo in quell’anno, anche più di Demi Lovato, è risultata essere Meghan Markle. E nel 2006, invece, la donna più cercata su Google è stata Paris Hilton. D’altra parte è chiaro che qualsiasi donna, in cuor suo, sognerebbe una storia da favola come quella di Meghan Markle o di Paris Hilton: cosa c’è di più favoloso nella vita se non vivere come una ereditiera multimilionaria o una principessa? Per quanto si possa affermare di essere soddisfatte dalla propria vita, è innegabile che condurre un’esistenza come quella di Meghan Markle o di Paris Hilton sarebbe proprio come vivere in una favola, in un sogno...perchè sognare può realmente donare la speranza e aiutare a combattere lo stress quotidiano e le altre emozioni negative. Un altro dato che conferma che alla gente piace sognare parla italiano: si tratta della Ferrari, termine di ricerca tra i più gettonati in tempi pre-crisi (ad esempio nel 2004 o nel 2003, superando − come volume di ricerca − numerosi e conosciutissimi brand internazionali quali Disney, Sony, Ryanair, Walmart, HP, Dell e BMW). 

Ferrari guidata da Michael Schumacker al GP di S.Marino del 2003

Ora, se una persona cerca su Google un’auto qualsiasi, come una Toyota o una Fiat, lo fa principalmente per informarsi al fine di acquistarla, prenderla in noleggio o anche venderla qualora ne fosse in possesso. Ma quanta gente ha la disponibilità economica per comprare una Ferrari? Di certo non tutti quei milioni di persone che l’hanno cercata su Google. Magari l’avranno cercata pure per seguire il campionato costruttori della Formula 1, ma pure lo sport − al fine di attrarre i tifosi-telespettatori che guardono anche e soprattutto le numerose pubblicità presenti nei vari campionati − fa leva sulla necessità della nostra mente di trovare una valvola di sfogo ai problemi quotidiani e dunque di sognare e svagarsi. Nel caso della Formula 1, ad esempio, una delle cause principali per cui si seguono le gare automobilistiche è proprio perchè disputate con auto sportive dalle grandi performance, con tutto ciò che ne consegue. Insomma, così come una donna può sognare immedesimandosi in una principessa come Meghan Markle o in una ereditiera come Paris Hilton, un uomo può sognare immedesimandosi in un pilota strapagato di Formula 1, al volante di una splendida vettura sportiva e che, qualora dovesse vincere, si troverebbe dinanzi a sè una grande festa con un enorme bagno di folla pronta a idolatrarlo. Supponiamo che invece si trattasse di una gara automobilistica tra city car o, peggio, ape car e con piloti improvvisati: chi perderebbe tempo a guardarla? Di certo non regalerebbe le stesse emozioni della Formula 1, non arriverebbe a soddisfare quel bisogno di evasione a cui la mente ha diritto. Ma, consultando ancora a fondo i dati di Google Trends possiamo avere sì la conferma che la Formula 1 rappresenta uno degli sport più celebri al mondo, ma il primato lo detiene senz’altro il calcio. E le conferme sono molte: i calciatori compaiono praticamente ogni anno nell’elenco delle persone più cercate, ogni 4 anni i mondiali di calcio sono l’evento più cercato di tutti, e così via. Che il calcio sia lo sport più seguito al mondo non stupisce più di tanto, stupisce però che la gente lo anteponga a questioni ben più importanti, come lo sono i cambiamenti climatici: dai dati di Google Trends si apprende infatti che Greta Thumberg è una illustre sconosciuta in confronto a Neymar Jr., il quale risulta essere ben più cercato rispetto all’attivista svedese. D’altra parte si sa che il cambiamento climatico è una questione seria...ma mai tanto quanto il calcio. Questa tendenza a non dare eccessivo risalto al cambiamento climatico − che potenzialmente è molto più pericoloso di una pandemia − può essere spiegata con il fatto che la mente dà molta più rilevanza a minacce percepite come hic et nunc, immediate e immediatamente pericolose, quali quelle che abbiamo visto precedentemente: guerre, attentati, pandemie, catastrofi naturali ben definite (uragani, terremoti, eruzioni vulcaniche...), eccetera. I cambiamenti climatici sono un fenomeno che non ha effetti dannosi nell’immediato, pertanto la nostra mente fa fatica a reputarli come effettivamente pericolosi per l’incolumità personale. Anche su questo c’è molto da riflettere.

Un altro dato che fa riflettere, e che si può constatare dall’analisi approfondita dei dati di Google Trends, è come la società cambia con la continua innovazione tecnologica, sia a livello hardware sia software. Nel primo caso, se analizziamo la categoria di gadget tecnologici (telefoni, tablet, lettori mp3/mp4...) possiamo notare come rigorosamente cambino ogni anno, poichè un device prodotto l’anno prima è già vecchio l’anno dopo, con la conseguenza diretta di perdere subito d’interesse. Nel secondo caso, se consideriamo internet possiamo constatare come tale tecnologia ha cambiato profondamente la società in cui viviamo. Effettivamente l’accesso alla rete e l’utilizzo attivo dei social network ha portato a cambiamenti sociali su vasta scala, anch’essi visibili dall’analisi dei dati di Google Trends. É un po’ come dire che attraverso internet possiamo vedere internet stesso, a distanza di alcuni anni. Non tanti, giusto una decina. Ora, proviamo a lanciarci in un nostalgico viaggio, seppur virtuale (ma al giorno d’oggi cosa non lo è?), indietro nel tempo, fino al 2010: c’erano più soldi e non c’era la pandemia, ancora non iniziava la “primavera araba” e con essa l’ISIS e una lunga serie di guerre, in Italia ancora non si verificava una crisi economica, anzichè sui DPCM il dibattito politico era incentrato sulle donnine allegre che sollazzavano un premier, bastava essere presenti su un unico social per essere social e...si ascoltava Justin Bieber. Dato, quest’ultimo, a prima vista di poco spessore e, onestamente, che mette a dura prova l’umana sopportazione, dal momento che quando si pensa a Justin Bieber affiorano inevitabilmente alla mente i nugoli di ragazzine impazzite e urlanti che inneggiano alla sua persona. Ma, che si voglia o meno, Justin Bieber è destinato (purtroppo?) a rimanere nella storia. Sì, perchè trattasi del primo caso al mondo di popstar di fama mondiale il cui lancio è dipeso da internet, nella fattispecie dallo streaming online, poichè Justin si è affermato come cantante proprio poichè realizzava dei suoi video in cui si esibiva cantando (e suonando la chitarra), che poi caricava su YouTube. E da lì è iniziato il suo successo, confermato dal fatto che nel 2010 è risultato essere la persona più cercata su Google. La ex coppia formata da lui e da Selena Gomez è esemplare a riguardo, poichè vede a confronto due popstar di stile, età, localizzazione geografica e fama in tutto e per tutto molto simili, ma dai background completamente diversi: lui lanciato da YouTube, lei dalla TV (Disney Channel). E andando avanti con gli anni di ricerche su Google possiamo anche constatare che via via le grandi popstar che hanno raggiunto un successo mondiale si sono sempre di più affermate via internet, ovvero caricando loro canzoni online, come nel caso di Ed Sheeran prima e di Billie Eilish dopo, solo per citarne qualcuna. E con le popstar dei nostri giorni torniamo prepotentemente al tempo presente, lasciandoci alle spalle i bei ricordi di 10 anni fa. Che questo sia stato un anno strano, difficile, si può capire anche da Google Trends: a ben vedere, se si confronta il 2020 con gli altri anni, si evince come sia stato praticamente l’anno più dissimile da tutti quanti gli altri. Un’eccezione che conferma la regola? Sì, almeno fino ad ora. Un augurio a tutti voi di buon 2021, sperando che l’anno prossimo su Google si cerchino solo keywords di vita e di speranza